Raccontare le Donne: la Fotografia Femminista di Maria Clara Macrì
1 4 Share TweetAlla radice dei progetti di Maria Clara Macrì c'è l'immagine come atto politico, culturale e sociale, così come per In Her Rooms, una serie di stupende fotografie di donne, ritratte su pellicola nell'intimità delle loro stanze, spogliate dallo sguardo maschile e dall'oggettivizzazione. Leggi l'intervista per scoprire di più e ammirare alcuni dei suoi meravigliosi scatti.
Ciao Maria Clara, benvenuta a Lomography! Potresti presentarti ai lettori del nostro Online Magazine?
Sono nata a Reggio Emilia, l’unica di una intera famiglia di napoletani e ci tengo molto a specificarlo perché sia la terra dove sono nata che Napoli fanno parte di me in egual modo. Ho 35 anni e vivo la fotografia.
Raccontaci del tuo background fotografico. Qual è la tua storia? Quando hai iniziato a fotografare?
Ho iniziato a fotografare molto prima di avere una macchina fotografica mia. Usavo le macchine dei miei amici quando ero all’università e neanche vedevo il risultato di quello che facevo, all’epoca ero più impegnata da un lato a studiare Storia del mondo contemporaneo, mantenendo il focus sulla storia del femminismo, e dall’altro a scrivere racconti brevi di vite di donne inventate da me, ambientate in diverse città del mondo. Il mio sogno era diventare scrittrice. Dopo la laurea verso i 23 anni, mia mamma mi ha regalato una macchina fotografica e qualcosa è letteralmente scattato dentro di me.
Vivevo a Londra in quel momento e proprio lì ho cominciato a capire che la fotografia combaciava con il mio approccio alla vita. Ho cominciato a studiarla da sola, prevalentemente facendola, vivendola, poi anche leggendo, documentandomi, andando alle mostre. Avevo incontrato un altro tipo di scrittura, che mi permetteva di sfruttare anche l’altro dono che ho sempre avuto, l’empatia.
I tuoi scatti e i tuoi progetti si muovono principalmente nell'ambito delle questioni di genere e in particolare della rappresentazione delle donne. Quando hai iniziato a interessarti a questi temi e quando hai capito che la tua fotografia poteva essere uno strumento valido per affrontarli?
Come dicevo, la tematica femminile anzi femminista è sempre stato l’ambito della mia ricerca personale. In particolare quando cominciavo i miei primi esperimenti con la macchina fotografica ero convinta di poter creare una nuova forma di autocoscienza femminile, una delle pratiche più interessanti che il movimento femminista degli anni 60/70 abbia creato, unendo il dialogo intimo all’empatia alla performance e alla fotografia. Ero convinta come lo sono tutt’ora del fatto che una visione sincera, complice ma che non vuole compiacere e soprattutto non oggettivante sull’universo complicato e fluido della donna (e mi verrebbe da dire sull’essere umano in generale) sia costantemente necessaria a un immaginario collettivo che vuole evolvere e che difende le proprie conquiste storiche, e che deve ancora ahimè battersi per i propri diritti più essenziali. Volevo e voglio essere parte di questo, il ruolo politico, culturale e sociale che svolge l’immagine è sempre la base da cui si aprono tutti i miei progetti.
Il tuo progetto In Her Rooms è stato esposto al Festival di Fotografia Europea nel 2022 ed è raccolto nel libro omonimo pubblicato nel 2021 da Postcart Edizioni. Ci racconteresti qualcosa di questa meravigliosa e potente serie di scatti? Come hai conosciuto le donne protagoniste degli scatti e come ti sei approcciata a loro?
Progettavo In Her Rooms da circa due anni quando nel 2018 ho finalmente preso il coraggio di iniziarlo. Dico coraggio perché sapevo mi sarei dovuta dedicare totalmente e perché era una sfida altissima. Non solo volevo ritrarre le donne nelle loro stanze, dovevo incontrarle grazie al destino e selezionarle sull’onda dell’energia e dell’empatia reciproca, dovevano essere a me sconosciute e portare i tratti di sorelle provenienti da tutto il mondo. Così ho deciso di andare in quelli che io chiamo ombelichi del mondo, le grandi metropoli in cui potevo arrivare senza investimenti troppo elevati, essendo completamente autoprodotta e autofinanziata, a cominciare da New York poi Los Angeles, Londra, Parigi, Barcellona, Roma, Napoli, Milano. Sapevo che avrebbe funzionato dentro di me, ma non avevo idea che si sarebbe poi trasformato nel mio destino in maniera così determinante, forse solo speravo. Con ognuna di loro ho una storia diversa, con ognuna di loro ho approcciato in modo singolare e irripetibile, unico comun denominatore era la spontaneità totale, senza freni, senza schemi, senza formalità. Credo sia quello poi il segreto che scioglie le strangers fino a lasciarsi andare come se fossimo sempre state sorelle.
C'è una storia che ti ha colpita particolarmente?
Ne ho tante, sono tutte storie che a raccontarle mi sembrano incredibili.
Leila l’ho conosciuta perché una sera a Los Angeles ero in un posto dove non trovavo il mio posto e ho chiesto all’unica persona che mi sembrava più simile a me dove potessi andare. Alla fine sono salita in macchina con lui e mi sono imbucata in una festa in villa a Beverly Hills dove Leila è stata la prima persona che ho visto, si stava asciugando i lunghissimi capelli con il phon e ho capito subito che sarebbe saltata sul mio treno qualche giorno dopo.
Che valore ha per te la fotografia analogica, in un mondo ormai essenzialmente digitale?
Per me la fotografia analogica rappresenta la magia, la concentrazione, il tempo dilatato, la spontaneità del soggetto che non ha l’ansia di vedersi subito e si lascia andare nelle mie mani. È un’atto di fiducia. Io stessa non ho ansia, l’attesa dello sviluppo dei miei rullini è eccitante, scandisce la mia vita, è una sensazione della quale non voglio fare a meno. Mi fa sentire al sicuro avere i miei negativi e pensare di non poterli perdere perché un hard disk si rompe, un computer frigge e cose del genere. La velocità del mondo digitale divora quello che per me è la vera ricchezza, il tempo. Io ci navigo nel mondo digitale, mi servo del digitale per restare in connessione con le persone che incontro nel mondo reale e permetto al mio lavoro di essere visto da un pubblico vastissimo. Nonostante questo la Fotografia per me resta analogica così come lo scambio umano che più mi interessa. Si addice perfettamente a me, come i miei vestiti vintage, la mia voce ruvida, il funk degli anni 70, traduce la mia essenza, la mia personalità, il mio stile, la mia completa devozione al destino, alla magia e alla poesia.
Viaggi spesso tra New York, Londra, Los Angeles, Parigi... Qual è l'attrezzatura fotografica che non può mai mancare nel tuo zaino?
La mia Contax T2 , che ogni tanto mi abbandona e tira brutti scherzi, ma è la mia compagna.
Cosa ti aspetta in futuro? Hai in programma qualche progetto interessante che vorresti condividere con i nostri lettori?
Abbracciando la fotografia come stile di vita ho scelto che il mio futuro sia totalmente imprevedibile. Quello che faccio è cavalcare il cavallo del mio destino, direzionandolo verso le avventure che valgono la pena essere vissute, che possono diventare nuovi libri e mostre.
Ora sono impegnata nel mio nuovo progetto che al contrario di In Her Rooms è nato all’improvviso eppure senza In Her Rooms non sarebbe mai stato possibile. Non è da me spoilerare. Ai nostri lettori posso dire che ho aggiunto un nuovo linguaggio, il video, un nuovo amore e mi gasa molto.
Grazie mille Maria Clara per questa interessante intervista! Segui i suoi progetti su Instagram e sul suo sito.
Scritto da ludovicazen il 2023-02-09 in #persone
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