Caleidoscopico: la Molteplicità dell'Essere Umano Attraverso la Fotografia Sperimentale
Share TweetIn questa intervista, esploriamo il lavoro di Alessia Spina, fotografa e ricercatrice scientifica, che ha scelto di sperimentare con le pellicole LomoChrome per il suo progetto Caleidoscopico. Attraverso le tecniche delle esposizioni doppie e multiple, Alessia crea immagini che raccontano la molteplicità dell’essere umano e l’ambivalenza delle emozioni. Scopriamo insieme la sua visione e il suo percorso nel mondo della fotografia sperimentale.
Ciao Alessia! Potresti fare una breve introduzione per i lettori del nostro Online Magazine?
Ciao! Sono originaria di San Benedetto del Tronto e ho 35 anni. Dopo alcuni anni trascorsi tra Marche, Inghilterra, Irlanda e Spagna, mi sono stabilita a Milano, dove vivo da 11 anni. Lavoro in ospedale e mi occupo di ricerca scientifica. Sono scientific Assistant, Medical Writer ed Event Manager. Ho un passato da guida turistica e una passione sfrenata per l’arte, la scrittura e la fotografia fin dai tempi dell’adolescenza. Sono laureata in Mediazione Linguistica, Scienze e Tecniche Psicologiche e laureanda in Psicologia Clinica. Ho una formazione in fotografia digitale, fotografia analogica, fotografia creativa, fotografia terapeutica, camera oscura e water photography. Il mio obiettivo è integrare creatività scientifica e creatività artistica, fotografia e psicologia, arte e scienza.
Parlaci del tuo background. Quando è iniziato il tuo viaggio nel mondo della fotografia e come ti sei avvicinata al mondo analogico?
Ho sempre avuto una tendenza a esprimermi per immagini. In particolare, nel periodo adolescenziale avevo l’abitudine di fare delle uscite fotografiche con amici che erano iscritti a una scuola di fotografia. Ci divertivamo a fotografare il paesaggio marchigiano, tra mare e collina. Loro mettevano in pratica la tecniche apprese, io mi dilettavo da autodidatta ed ero più attratta dalle persone che dai paesaggi. Successivamente, quando mi sono trasferita a Milano, ho frequentato una scuola di fotografia, Bottega Immagine, per apprendere le tecniche base, intermedie, avanzate e le tecniche creative con la fotocamera digitale. Da ex nuotatrice e amante dell’acqua ho partecipato anche a un workshop di water e surf photography con Silvia Potenza (in arte Shahzinha) a Santander e ho cominciato ad appassionarmi di fotografia in acqua. Nei mesi estivi amo scattare in piscina, al fiume o al mare e ritrarre persone sott’acqua, laddove il controllo del movimento è minimo e occorre saper direzionare il soggetto, stando in apnea per il tempo necessario allo scatto.
Per un completamento della formazione ho frequentato anche un corso di camera oscura e mi sono innamorata dei tempi lenti e riflessivi dell’analogico. Nel 2018, i miei compagni di fotografia mi hanno regalato una Voigtlander Vito II del 1950, senza telemetro, che è diventata un prolungamento del mio braccio. La scelta della fotocamera analogica è stata funzionale al processo di riflessività che caratterizza la programmazione dello scatto. La fotocamera digitale permette di avere a disposizione un numero relativamente illimitato di immagini, innescando un processo per tentativi ed errori e riducendo il meccanismo di pianificazione cognitiva dell’immagine nella fase che anticipa la produzione.
La pianificazione e la creazione sono importanti perché portano ad assumersi personalmente dei rischi emozionali per raggiungere la posa o la fotografia finale. Inoltre, la fotocamera digitale consente una preview, con anticipazione dello scatto sullo schermo, mentre con la fotocamera analogica ciò non è possibile. In questo modo viene a limitarsi la tendenza fisiologica al rassettamento estetico che fuorvia, automaticamente, dall’espressione del contenuto, per via di giudizi condizionali.
Fotocamere del cuore: Voigtlander VitoII, Canon AE1, ereditata da mio zio.
Oggi torni da noi con un nuovo progetto: "Caleidoscopico". Raccontaci come nasce e l'idea dietro.
Caleidoscopico nasce da una esigenza personale di legittimare la differenza, il diverso e la molteplicità dell’essere umano. Siamo molte cose, non una soltanto, come spesso portati a credere in base a ruoli o schemi appresi. Di fatti, caleidoscopico sta per qualcosa che ha toni, colori, aspetti costantemente mutevoli. La diversità non ha solo a che fare con le altre persone, ma anche con se stessi, con la diversità che abita il proprio “sé”. Intra-relazionale, oltre che inter-relazionale. Quando le persone si sentono legittimate a essere più cose, a provare più emozioni, anche contemporaneamente, e a concedersi di vivere gli affetti più in profondità, allora possono fiorire. E tollerare e accogliere anche l’altro da sé. Accogliere l’ambivalenza che va oltre un illusorio “o bianco o nero”.
La fotografia è un cavallo di Troia che collega le aree frontali del cervello alle aree sottocorticali, viscerali, e porta a galla nuove consapevolezze multiple che si mescolano ad antiche credenze monolitiche. Caleidoscopico è un inno alla valorizzazione delle differenze e delle compresenze, che hanno un forte potere generativo e trasformativo, laddove vi sia un atteggiamento di apertura a più possibilità. Siamo esseri mutevoli, non pietre. Siamo molte cose insieme in continua evoluzione.
Tutte queste meravigliose foto sono state scattate con le nostre pellicole LomoChrome: Purple, Redscale, Turquoise e Metropolis. Come mai questa scelta?
Perché la variazione delle cromie e dei toni facilita l’espressione emotiva. In che senso? I toni freddi della Turquoise aiutano a comunicare nostalgia, malinconia, tristezza, tenerezza, oltre che a creare paesaggi surreali e mondi paralleli, laddove lo si ritenga necessario. La Purple, invece, aggiunge un effetto punk, ribelle e dinamico. Un trip a tutti gli effetti. Se pensiamo che la realtà è sempre un po’ allucinata perché la costruiamo soggettivamente può essere senza dubbio la pellicola giusta per comunicare il proprio punto di vista. La Metropolis porta indietro nel tempo e si tinge di “per sempre da sempre”.
La tua pellicola LomoChrome preferita? E per quale motivo?
La Redscale. Ho un debole per il rosso (colore preferito), l’arancio, i toni caldi. Una passione per l’inferno e il lato oscuro, diabolico, di ognuno di noi. Con la red scale riesco spesso a conferire questo significato. Mi piace che sveli il proprio “sé” più scomodo.
Hai anche utilizzato due tecniche molto apprezzate dalla nostra community: la tecnica delle doppie esposizioni e delle esposizioni multiple: per quale motivo?
Credo che le competenze tecniche siano al servizio dei processi creativi ed espressivi e sono necessarie per metterli in pratica. Per scattare una buona foto non bisogna essere maghi di tecnica. Ad oggi, peraltro, l’intelligenza artificiale ed alcuni automatismi di fotocamere avanzate ci insegnano che possiamo “scattare” una foto tecnicamente perfetta senza un minimo di conoscenza a riguardo. Dunque, cosa fa la differenza in un momento storico simile? La comunicazione. Che cosa vuoi dire? Soprattutto, hai qualcosa da dire o la foto che produci parla di un bellissimo vuoto di contenuto? Vedo spesso immagini esteticamente perfette che non dicono nulla.
Utilizziamo uno sfuocato se vogliamo trasmettere sensazioni oniriche, un mosso se vogliamo raccontare dinamismo e cambiamento, un contrasto netto se vogliamo esaltare parti in luci e parti in ombra, un bianco e nero se vogliamo evidenziare l’aspetto storico, transgenerazionale e sottolineare l’influenza della memoria.
Io utilizzo l’esposizione doppia e multipla per esprimere la molteplicità degli aspetti psicologici (e non solo) che possono convivere in una stessa persona e in uno stesso momento. In genere, sono anche i miei stati, nel senso che quando fotografo metto dentro quello che vivo in quel momento. La sovrapposizione ha la funzione di comunicare una moltitudine, più strati, più livelli. Ha la funzione di “incasinare” e raccontare l’ambiguità, non una composizione lineare ma circolare.

A marzo terrai un laboratorio di fotografia terapeutica presso Bottega Immagine: come si integra la fotografia in questo tipo di laboratori?
La fotografia permette di esprimere emozioni, migliorare la comunicazione e stimolare la creatività con effetti positivi sul benessere psicofisico. La creatività si allena proprio come un muscolo, non è vero che o si è creativi o non lo si è. L’iniziativa è rivolta sia a fotografi con esperienza, sia a coloro che vogliono avvicinarsi al mondo della fotografia, ma non possiedono le competenze tecniche. I partecipanti acquisiranno le competenze tecniche di base e le metteranno in pratica in funzione dei processi creativi ed espressivi. La fotografia ci permette di dare forma a ciò che sentiamo, proviamo, immaginiamo. Ci libera da stereotipi ancorati a una visione oggettiva della realtà e ci apre al costruttivismo, ad una realtà che non è data a priori, ma che può essere costruita soggettivamente. È un continuo gioco di rimandi e risonanze tra mondo interno e mondo esterno e una costante rivelazione di significati che viaggiano su binari bidirezionali e creano connessioni tra un tempo sincronico e diacronico, storia personale e generazionale. Si tratta di dare forma a ciò che, per definizione, è privo di forma ma carico di forza. È questa la missione del creativo.
Alla fine del corso il partecipante saprà utilizzare la fotocamera (analogica, digitale/smartphone) come strumento di esplorazione ed autoconoscenza secondo la propria inclinazione personale, oltre che come potente mezzo di comunicazione. Saprà pensare creativamente e sviluppare una progettualità fotografica sulla base di contenuti cognitivamente ed emotivamente significativi.
Come ti sei avvicinata alla foto-terapia?
Mi preme innanzitutto differenziare fototerapia e fotografia terapeutica. La fotografia terapeutica, a differenza della fototerapia che si applica solo in un contesto di psicoterapia, consiste in un insieme di attività basate sulla fotografia che vengono avviate autonomamente, come parte di un gruppo o progetto organizzato, ma in cui non è in corso una terapia formale all’interno di un setting psicoterapeutico.
Dunque, mi sono avvicinata alla fototerapia perché la mia terapeuta ha utilizzato tecniche di fototerapia durante il nostro percorso insieme, secondo il modello di Judy Weiser, e le ho trovate particolarmente utili e proficue.
Mi sono avvicinata, invece, alla fotografia terapeutica nello stesso periodo, quando ho cominciato a lavorare al mio progetto fotografico sugli attacchi di panico, Pandemonio. I benefici ottenuti da questa attività sono stati innumerevoli e il lavoro è stato pubblicato, diventando libro fotografico nel 2021. Ho raccolto narrazioni e fotografie di persone che soffrivano di attacchi di panico tramite una intervista semi-strutturata e, in un gioco di risonanze e catarsi, sono riuscita a trarne beneficio anche io, insieme alle persone che hanno partecipato al progetto.
La fotografia terapeutica si può realizzare in maniera autonoma e individuale, oppure in presenza di altri professionisti che accompagnano l’individuo alla comprensione e produzione dell’attività. Inoltre, un anno fa ho partecipato a un workshop di fototerapia psicocorporea organizzato dal Dott. Riccardo Musacchi ed è stata una esperienza che ha confermato il mio interesse nel voler approfondire questo mondo e investire su questo approccio.
Puoi condividere con i nostri lettori i principi di base e benefici della fotografia terapeutica?
Il linguaggio metaforico e simbolico, non-verbale, che utilizziamo attraverso le fotografie che creiamo ci permette di entrare in contatto con le nostre emozioni e i nostri sentimenti, che spesso emergono all’improvviso e vengono per questo percepiti come più forti e autentici, come ci ricorda Judy Weiser nel suo lavoro “Phototherapy Techniques”.
Questo passaggio non è mediato dalla traduzione verbale che ci concede sempre buoni nascondigli per le difese cognitive (razionalizzazioni, negazioni, giustificazioni, etc.) e altri meccanismi a favore della censura protettiva della mente. Uno scatto fotografico può fare da ponte tra il sistema cognitivo e i sensi, tra il sé più profondo che è al di sotto della consapevolezza e il sé cosciente, e tra il sé di cui siamo consapevoli e quello che è visibile agli altri.
Le tecniche foto-proiettive connettono gli stimoli visivi ai significati consci ed inconsci...d’altronde al suo livello più elementare vedere è credere, sia dal punto divista metaforico sia letterale, noi vediamo quello che crediamo e crediamo a quello che vediamo, “vedere” è infatti spesso usato come sinonimo di “capire”. A volte il vedere, processo selettivamente filtrato, è anche un modo per non vedere. Ecco perché la fotografia può essere un potente mezzo per persone che non riescono a provare o esprimere le proprie emozioni apertamente.
Infine, la fotografia mette in relazione con sé stessi e con gli altri, produce flessibilità di pensiero, aiuta a considerare diversi punti di vista, a condividere ed arricchire la propria esperienza attraverso l’altro, in un gioco di specchi e risonanza che facilita l’evoluzione personale, in un continuo rimando tra mondo intrapsichico e intra-relazionale. Il corpo, scattando una fotografia, mette in contatto con le emozioni, mette in scena e porta fuori per re-introdurre dentro con una prospettiva più ampia, che allarga il campo per vedere i fili che lo compongono, tramite un allineamento degli assi cognitivo-emotivo-percettivo.
Si rende, dunque, necessaria una elaborazione successiva, a livello cognitivo: il solo corpo e il solo aspetto percettivo, che muove le emozioni senza elaborarle può condurre a una attivazione fine a sé stessa, che porta fuori ma non reintroduce dentro, che non viene contenuta e mantenuta a lungo termine. D’altro canto, il solo ragionamento rischia di stagnare in uno sterile incompiuto, che coinvolge solo il livello cognitivo. Le fotografie, le immagini, le opere d’arte in generale, ci permettono di congiungere tra loro la dimensione verbale e quella visuale ed entrambe con la dimensione emotiva, permettendoci di capire questa connessione, ci danno testimonianza della nostra storia e della sua importanza.

Come vengono accolti dai partecipanti questo tipo di laboratori?
Con un misto di curiosità e timore. Andare a fondo ed esplorare certe dinamiche non è sempre immediato…ma in genere vince la curiosità, proprio per via del fascino del racconto per immagini che, se correttamente guidato, può condurre a nuovi punti di vista senza il rischio di esserne sopraffatti.
L'anno scorso, insieme a Gio Blonde, e con il supporto della piattaforma Crowdbooks hai presentato il libro Il Tabù dell'Amore. Com'è andata la campagna di crowdfunding?
La campagna per il crowdfunding è andata a buon fine. Sono state pre-vendute 220 copie, necessarie a coprire le spese di pubblicazione, e il libro verrà pubblicato e inviato a coloro che lo hanno pre-ordinato proprio in questi giorni. Sarà acquistabile dalla settimana prossima attraverso il sito Crowdbooks e alcune librerie fisiche. Per questo progetto sulle relazioni amorose, ho sviluppato un’intervista semi-strutturata al fine di indagare atteggiamenti e comportamenti, dapprima sul piano generale, con graduale passaggio dal mondo esterno e più sociale, al mondo interno, più personale. L’intervista ha richiesto ai partecipanti anche la realizzazione di due rappresentazioni grafiche, guidata e libera, per valutare le immagini mentali associate con tecnica proiettiva.
A fine intervista sono state scattate delle foto ai partecipanti, in collaborazione con la collega Gio Blonde, cercando di rappresentare i contenuti e gli stati emotivi emersi per produrre una narrazione visiva a integrazione del pensiero. Inoltre, ho sviluppato e sperimentato in autonomia una fase asincrona con alcuni intervistati, richiedendo la produzione di due immagini entro 48 ore dall’intervista. Questa fase è stata portata a compimento con una fotocamera analogica usa e getta, pellicola 35 mm, consegnata ai partecipanti al termine dell’intervista e restituitami dopo gli scatti, per consentire il passaggio della stessa, come un testimone, ai partecipanti successivi fino ad esaurimento pellicola. Ognuno è stato, poi, invitato a inviare un messaggio di testo con le specifiche sul contenuto e la motivazione delle immagini realizzate. Quando scattiamo fotografie ci trasformiamo dall’essere partecipanti coinvolti, ignari della nostra posizione, a essere osservatori attivi.
Hai qualche nuovo progetto o collaborazione interessante in programma?
Attualmente ho in attivo due progetti di ricerca in psico-cardiologia che utilizzano attività di fotografia terapeutica e scrittura espressiva per incrementare il benessere psicofisico di persone con patologie cardiovascolari. Analogamente, la scrittura espressiva è una tecnica che aiuta a comprendere e gestire le proprie esperienze e tensioni emotive, contribuisce al benessere psicofisico, alla diminuzione dello stress, al miglioramento delle relazioni e al rafforzamento del sistema immunitario. Numerosi studi attestano il potenziale curativo e l’effetto benefico della fotografia sul benessere dei pazienti in ambito clinico, oltre che psicoterapeutico. Anche questo approccio può essere utilizzato come prassi routinaria nei percorsi di cura. Il soggetto approfondisce la propria consapevolezza di sé per migliorare il senso dell’essere: le immagini diventano un modo per esprimersi, per comunicare quello che non si riesce a verbalizzare. In alcuni casi, quando la consapevolezza della malattia viene acquisita, la fotografia può supportare l’integrazione dell’esperienza di malattia, evitando scissioni tra sé sano e sé malato. Infine, sto avviando un progetto fotografico in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano su un tema molto importante. Ne parleremo meglio più avanti.
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Scritto da melissaperitore il 2025-02-19 in #gear #In-depth #fototerapia #fotografia-terapeutica
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