Mudec Photo Presenta: MUHOLI, a Visual Activist

Da 10 anni Zanele Muholi (Umlazi, Sud Africa 1972) - una delle voci più interessanti del Visual Activism - è nell’Olimpo dei più celebrati artisti contemporanei, ma il suo lavoro coincide in toto con il suo credo, al punto che Muholi ama definirsi attivista, ancora prima di sentirsi - ed essere - artista. La sua arte indaga instancabilmente temi come razzismo, eurocentrismo, femminismo e politiche sessuali, è in continua trasformazione e i suoi mezzi espressivi sono la scultura, la pittura, l'immagine in movimento.

In ordine orario dall'alto a destra: Bester I Mayotte, 2015 - Aphelile X Durban, 2020 - Bhekezakhe Parktown, Johannesburg, 2016 © Zanele Muholi

Ma è con la fotografia, e in particolare con la serie di autoritratti – iniziata nel 2012 e ancora in corso - Somnyama Ngonyama (Ave, Leonessa Nera) che Muholi riceve il plauso planetario, in un crescendo di mostre nei più prestigiosi musei del mondo: dalla Tate Modern di Londra a mostre personali al Goethe-Institut Johannesburg (2012), al Brooklyn Museum, New York (2015) allo Stedelijk Museum, Amsterdam (2017), al Museo de Arte Moderno in Buenos Aires (2018), solo per citarne alcuni. Tutti celebrano la bellezza struggente e magnetica delle sue opere, con movimenti d’opinione che seguono la sua voce e la nascita della sua fondazione Muholi Art Foundation per la promozione dei giovani artisti neri.

Il suo è un messaggio che arriva forte e chiaro:

...siamo qui, con le nostre voci, le nostre vite, e non possiamo fare affidamento agli altri per sentirci rappresentati in maniera adeguata. Tu sei importante. Nessuno ha il diritto di danneggiarti per la tua razza, per il modo in cui esprimi il tuo genere, o per la tua sessualità perché, prima di tutto, tu sei.

Muholi. A Visual Activist è il progetto attraverso cui il Mudec di Milano porta in Italia una selezione - curata da Biba Giacchetti e dall’artista - di oltre 60 immagini, scatti magnetici e di denuncia sociale che spaziano dai primissimi autoritratti realizzati ai più recenti lavori, tratti dal progetto artistico di Muholi, in costante evoluzione.

Konje II, ISGM Boston, 2019 © Zanele Muholi

Muholi è oggi ambassador di spicco della comunità LGBTQIA+ esponendosi in prima persona. Ogni sua immagine racconta una storia precisa, un riferimento a esperienze personali o una riflessione su un contesto sociale e storico più ampio. Lo sguardo dell’artista commuove, denuncia, inquieta lo spettatore, mentre oggetti di uso comune, ripresi in maniera fortemente simbolica, sono posti in un dialogo serrato con il suo corpo trasfigurandolo, raccontandoci ‘altro’, costringendoci a guardare fisso negli occhi di Muholi, sostenendo il suo sguardo per andare oltre il primo livello di lettura dello scatto.

La bellezza delle composizioni e il talento assoluto di artista sono per Muholi solo un mezzo per affermare la necessità di esistere, la dignità e il rispetto cui ogni essere umano ha diritto, a dispetto della scelta del partner o del colore della pelle, e del genere con cui si identifica. Il suo scopo è la rimozione delle barriere, il ripensamento della storia, l’incoraggiamento a essere sé stessi e a usare strumenti artistici quali una macchina fotografia come armi per affermarsi, e combattere.

L’ATTIVISTA-ARTISTA e LA MOSTRA

Per comprenderne la genesi e osservare il fluire in costante divenire della voce di Muholi, si deve fare un passo indietro e ripercorrere la biografia di questo personaggio affascinante ed eclettico.

Zanele Muholi nasce nel 1972 in Sudafrica durante il periodo dell’apartheid, plasmata dalla violenza di quel regime e dalle sanguinose lotte per la sua abolizione. Presto si deve confrontare con le ulteriori violenze riservate alla comunità LGBTQIA+, di cui fa parte. Violenze morali e fisiche, torture accompagnate spesso da sevizie e morte. Per dieci anni Muholi combatte contro l’occultamento dei fatti e documenta fotograficamente gli orrori e gli assassini di innocenti, condannati a causa del proprio orientamento sessuale.

In ordine orario dall'alto a destra: Ntozakhe II Parktown, Johannesburg, 2016 - Namhla at Cassilhaus Chapel Hill, North Carolina, 2016 - Phila I Parktown, Johannesburg, 2016 © Zanele Muholi

La prima serie di scatti artistici di Muholi documenta i sopravvissuti a crimini d'odio che vivevano in tutto il Sudafrica e nelle township. Sotto l'apartheid, infatti, furono istituite
township separate, ovvero ‘aree residenziali’ segregate per le persone nere che venivano ‘sfrattate’ dai luoghi designati come “white only”. Qui venivano perpetrate violenze di ogni tipo, tra cui la pratica dello ‘stupro correttivo’, contro la comunità LGBTQIA+. Negli anni Novanta il Sudafrica intraprese un cambiamento politico significativo. La democrazia venne stabilita nel 1994 con l’abolizione dell’apartheid, seguita da una nuova costituzione nel 1996, la prima al mondo a bandire la discriminazione basata sull'orientamento sessuale. Nonostante questi progressi, la comunità nera LGBTQIA+ rimane ancora oggi uno degli obiettivi principali della violenza più brutale in Sudafrica. Il 2012 è un anno particolarmente doloroso nel percorso di vita e artistico di Muholi. La sua lotta documentativa si interrompe bruscamente con un furto intimidatorio di tutti i suoi file non pubblicati. Muholi prova uno strazio indicibile che, unito al ricordo di tutto il dolore che ha documentato, porta l’artista quasi a cessare di esistere. È in questo momento che Muholi reagisce, decide che la sua lotta personale deve continuare, ma in altri termini.

Gira la macchina fotografica verso di sé piuttosto che verso gli altri, decidendo così di esporsi in prima persona. Rinuncia alla propria identità di genere per rappresentare un’identità collettiva che dia voce alla comunità nera omossessuale attraverso la fotografia, e in particolare l’autoritratto. La macchina fotografica diventa così per Muholi un’arma di denuncia e contemporaneamente di salvezza.

[…] non molti fotografi amano mettersi davanti alla macchina fotografica. Mi porta in spazi in cui mi sento più a disagio. Riesco a conversare con me stess* in modi che non ho mai fatto prima, il che è un altro modo di guarire.

Nasce così nel 2012 il progetto artistico Somnyama Ngonyama, Hail the Dark Lioness (Ave Leonessa Nera), la serie di scatti fotografici che il Mudec ha deciso di ospitare in questa mostra italiana, diventati anche un volume pluripremiato; un secondo volume è in corso di pubblicazione.

Da allora Muholi produce con costanza e coerenza una serie di potenti autoritratti, che stregano il pubblico in modo trasversale. C’è un’ossessività di fondo nell’arte di Muholi, dettata dalla potenza del suo messaggio artistico e di attivista che traspare dalla serialità assoluta dei suoi autoritratti, e dalla scelta della tecnica fotografica, in cui la preparazione allo scatto – totalmente non post prodotto - è già performance artistica. Muholi sceglie ogni volta con cura meticolosa e costante il setting e la luce, prepara il soggetto allo scatto in maniera rigorosa e ossessiva, lavorando sui contrasti cromatici bianco-nero, ponendo a nudo il proprio corpo. E infine il ‘contesto’ dell’autoritratto: Muholi si mette in scena con l’uso surreale e metaforico di oggetti di semplice quotidianità. Copricapi fatti di soldi, collane ricavate da cavi della luce, mollette in testa e corone fatte di pneumatici, pinze e cordami vari interpretati come turbanti e sciarpe sono sempre utilizzati e indossati sul suo corpo in pose di sorprendente bellezza che ricordano spesso – a un primo sguardo superficiale - il fashion style di certe copertine patinate di moda. Appunto, lo sguardo, fondamentale veicolo di un messaggio ‘altro’, di un atto di denuncia.

In ordine orario dall'alto a destra: Xiniwe at Cassilhaus North Carolina, 2016 - Qiniso, The Sails Durban, 2019 - Ziphelele Parktown, Johannesburg, 2016 © Zanele Muholi

I suoi occhi guardano spesso dritto in camera. Attraverso un’immagine familiare eppure distorta, Muholi invita il pubblico ad andare oltre quello sguardo ipnotico, a superare il primo livello di lettura dell’autoritratto, per riflettere - attraverso la “blackness” del suo corpo - sull’identità nera collettiva, con un effetto che sorprende per la forza evocativa del messaggio. Muholi rievoca l’Africa nera esotica attraverso il primo sguardo ‘patinato’, ma a un secondo livello di lettura ci si accorge della rivisitazione in chiave di denuncia, spesso delle torture e sevizie subite dalle comunità nere LGBTQIA+, come succede nell’opera Ziphelele (Parktown, Johannesburg, 2016), dove l’uso degli pneumatici d’auto come collane rimanda alla tortura della collana, un metodo di esecuzione sommaria extragiudiziale eseguita stringendo uno pneumatico di gomma inzuppato di benzina attorno al petto e alle braccia di una vittima e dandogli fuoco. Il termine "collana" ha avuto origine negli anni '80 nelle township nere del Sud Africa dell'apartheid, dove sospetti collaboratori dell'apartheid venivano giustiziati pubblicamente in questo modo.

I suoi scatti intavolano una conversazione ininterrotta con il mondo per denunciarne i soprusi, la violenza, l’ingiustizia a ogni possibile livello. Un discorso senza fine sulle proprie emozioni, sull’ingiustizia da correggere, sull’educazione da offrire alle nuove generazioni affinché le cose cambino, come nello scatto Ntozakhe II (Parktown, Johannesburg, 2016), dove lo sguardo di Muholi è rivolto in avanti, oltre, verso un futuro di speranza e di libertà.

La selezione speciale di oltre 60 autoritratti in bianco e nero scelti appositamente per il Mudec dalla curatrice Biba Giacchetti insieme a Muholi veicolano messaggi indelebili in un contesto espositivo – quello del Museo delle Culture – che risponde in piena coerenza alla visione valoriale dell’artista sudafricana. Muholi, infatti, esplora e dà voce all’Africa nera e ai drammi degli ultimi, degli emarginati, e attraverso la sua arte porta il suo messaggio all’attenzione di un Occidente spesso poco consapevole della violenza di genere, ancora attuale, proprio come il Mudec fa ogni giorno attraverso la ricerca, la collezione e la tutela delle espressioni di cultura materiale e immateriale delle popolazioni non europee e del Sud globale. Muholi racconta tradizioni africane ancestrali che ritornano nei suoi scatti, un’identità culturale che attraverso il suo obiettivo diventa arma potente contro l’odio razziale e di genere, messaggio di speranza e di inclusione da dare all’umanità; esattamente il messaggio che il Mudec veicola attraverso la sua costante attività quotidiana.

MaID II Atlanta, 2017 - MaID III Philadelphia, 2018 © Zanele Muholi

In mostra viene presentata anche una speciale selezione di opere tratte dal progetto in divenire dell’artista, insieme a una installazione site specific creata da Muholi appositamente per il Mudec, unica ed esclusiva, che si allontana dalle forme iconiche di rappresentazione che hanno caratterizzato il suo progetto di autoritratti, ma che si fonde e si completa in una riflessione sui modi in cui l'interiorità, la tenerezza e l'espressione di sé possono essere atti radicali e unificanti. Un modo diverso di declinare il suo attivismo visivo. Vulnerabilità, passione e ricordi intimi si articolano nella messa in scena di un letto, elemento su cui Muholi ha spesso portato la sua riflessione. Emblema di riposo, di incontro, ma ugualmente teatro frequente di violenze domestiche. Il letto concepito per il Mudec è dedicato alla sua sfera più intima e privata nella narrazione di un abbraccio tra l’artista e la compagna scomparsa, riprodotto in una immagine che ne rivestirà l’intera superficie.

“Con questa installazione esclusiva – commenta la curatrice della mostra Biba Giacchetti - Muholi vuole comunicare come il riposo, la necessità dell’abbandono all’altro, siano componenti universali della natura umana e trascendano le logiche di razza genere e sessualità."

Al lavoro esistenziale e autobiografico iniziato con Somnyama Ngonyama, oggi il messaggio di denuncia di Muholi affianca il gene della speranza, di una via alla positività, con il pensiero che di fronte a tanto dolore sia fondamentale la celebrazione della vita, in ogni suo aspetto. Muholi ha iniziato nel tempo e sta lavorando tuttora a un secondo importante corpus di immagini, Faces and Phases, in cui è tornata a ritrarre i componenti della sua comunità LGBTQIA+, non più come vittime ma come pieni protagonisti della loro esistenza, del loro talento, della loro forza e bellezza. Una collezione che ha creato un forte senso di appartenenza nella comunità.

Non voglio dire che tutto è triste e tetro. Volevo dire che c'è speranza e che il cambiamento arriverà. Nessuno ha mai pensato che l'apartheid sarebbe finita in Sud Africa; ci è voluto del tempo, sì, lasciatemi riconoscere questa violenza, ma non bisogna dimenticare che c'è l'amore. Sì, è difficile è davvero difficile, ma tutto questo passerà.

È di questi ultimi mesi la decisione dell’artista di perdere anche il nome (Zanele) mantenendo solo il cognome, e di proseguire nel suo percorso personale di autodefinizione che passa dalla rinuncia prima del genere e poi del nome che comunque avrebbe continuato a identificare una persona singolare, giungendo ad autodefinirsi pienamente solo attraverso l’uso del pronome “loro”. Una scelta che questa mostra ha deciso di condividere in pieno nell’uso di un linguaggio più consono possibile.


La mostra è promossa dal Comune di MilanoCultura, prodotta da 24 ORE Cultura-Gruppo 24 ORE in collaborazione con SUDEST57, e vede come Institutional Partner Fondazione Deloitte. Per maggiori informazioni visita www.mudec.it.

Scritto da melissaperitore il 2023-04-24 in #cultura #milano #lgbtq #mostrafotografica #mudec #muholi

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